Asia News: 20 February 2014
Attivisti denunciano: “nel Paese vi è un governo dittatoriale e repressivo in tema di libertà individuali e diritti civili”. La sparizione di Sombath Somphone un monito per tutti gli attivisti e oppositori al regime. Un laotiano conferma: non si può discutere di politica o criticare il partito comunista al potere. Anche la religione sotto lo stretto controllo dello Stato.
Vientiane (AsiaNews) – Il partito unico comunista al potere a Vientiane perpetra “gravi” violazioni ai diritti umani, che il più delle volte passano sotto silenzio a causa del controllo strettissimo del governo sulla stampa e le associazioni attiviste. È quanto denunciano gruppi pro-diritti umani all’indomani della pubblicazione di un rapporto secondo cui il Laos è “lo Stato più repressivo” di tutta la regione del Sud-est asiatico. Fin dalla scomparsa dell’attivista e figura di primo piano della società civile Sombath Somphone, fermato il 15 dicembre 2012 a un check-point della polizia, il Paese è finito nel mirino dei movimenti internazionali che si battono per i diritti umani. Una sparizione dietro la quale vi sarebbero agenzie governative o membri legati ai poteri dello Stato.
In un’intervista a Radio Free Asia (Rfa) Phil Robertson, vice-direttore per l’Asia di Human Rights Watch (Hrw), sottolinea che “la situazione in Laos è molto seria”, perché il governo di Vientiane “usa il suo potere […] per controllare le posizioni politiche nel Paese, in un modo che viola chiaramente diversi trattati internazionali sui diritti umani”. Egli parla di esecutivo “dittatoriale” e “repressivo” in tema di libertà individuali e civili.
In tema di economia, il controllo dello Stato è pressoché assoluto, pur ipotizzando una possibile accelerazione nelle attività individuali in seguito all’ingresso – lo scorso anno – nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Sarah Cook, ricercatrice di Freedom House per l’Asia dell’est, riporta gli esempi di Cina e Vietnam, in cui i governi “si comportano in modo più aggressivo” dopo aver ospitato eventi internazionali che sembravano testimoniare “una parziale perdita del controllo”. “Per questo in Laos – aggiunge la ricercatrice – bisognerà aspettare il prossimo anno per vedere cosa succederà”.
Tutti i giornali del Paese sono controllati dal partito, continua Phil Robertson, per questo “non è facile conoscere i casi di abuso che si susseguono. Molti sono gli eventi che restano nascosti”. I cittadini sono “molto impauriti” per la scomparsa di Sombath, perché “se a sparire è un leader di primissimo piano” significa che “il governo può prelevare chiunque”. Un cittadino laotiano, dietro anonimato, conferma che “non si può parlare o discutere di politica” e qualsiasi legge governativa “non è passibile di confronto o di critica”. Se qualcosa “non ci piace”, aggiunge la fonte, “non possiamo certo protestare. E per chi organizza conferenze senza permesso, c’è l’arresto”. La stessa cosa per quanti indicano manifestazioni, passibili di fermo e condanna per istigazione alla “rivolta civile”.
Dalle ultime statistiche emerge che il Laos ha superato il Myanmar, sino al 2011 retto da una dittatura militare e ora guidato da un governo semi-civile, quale “[regime] più repressivo nella regione”. Tuttavia, conclude il vice-direttore di Hrw, non è importante stabilire quale sia il Paese più repressivo, ma ciò che conta è denunciare e punire “ogni singola violazione ai diritti umani”.
Le repressioni, peraltro, colpiscono anche i fedeli e le religioni, in particolare quella cristiana: dall’ascesa al potere dei comunisti nel 1975, con la conseguente espulsione dei missionari stranieri, la minoranza è soggetta a controlli serrati e vi sono limiti evidenti alla pratica del culto. La maggior parte della popolazione (il 67%) è buddista; su un totale di sei milioni di abitanti, i cristiani sono il 2% circa, di cui lo 0,7% cattolici. I casi più frequenti di persecuzioni a sfondo religioso avvengono ai danni della comunità cristiana protestante: nel recente passato AsiaNews ha documentato i casi di contadini privati del cibo per la loro fede o di pastori arrestati dalle autorità. Le maglie si sono strette ancor più dall’aprile 2011, in occasione di una violenta repressione della protesta promossa da alcuni gruppi appartenenti alla minoranza etnica Hmong.